venerdì 17 luglio 2009

IL FIUME SCORRE ANCORA

IL FIUME SCORRE ANCORA

Due torrenti a Cantagallo, un incontro, un abbraccio di schiuma e flutti e poi giù a sciorinar lembi d’acqua districandosi tra curve, anfratti e pieghe suggerite dalla Valle. Vigorìa e purezza sprigionate tra ellissi di ghiaia e rive di muschio aggrappato ora al faggio, ora al castagno; voracità di trote ospitate tra rivoli tronfi, sempre in cerca di friganee, e insieme le anse e i vetrici a guazzo che celano triotti e vaironi spauriti.
Muscoli mostrati e notati da altri muscoli e tendini sforzati, schiene curve e menti all’opera fra i monti, i boschi, i prati, a cercar la cattura di quei flussi. Si congegna la prigione, fatta di pale che prendon gli schiaffi dall’acqua, per dar lena alla grande digestione ruminante di granaglie, castagne, olive; masticazione dell’avorio anticipata da quella della pietra.
Osserva su un fianco il Monte calvo, e sovrasta, a insistere su quello, la Rocca di Cerbaia. Più sotto la Badia dei Benedettini, passata a quelli di Vallombrosa. Di schiena, il Monte aspro e spoglio, monte di fatica a cavar ferro e travertino . Scorre oltre, e offre il greto all’eleganza del barbo, lesto a rovistare i ciottoli, e al ghiozzo sgraziato e immobile che attende cibo. Cibo inverso anche lui nei giorni di festa, e nei pomeriggi d’estate, quando incastrato tra pozze è bersaglio di forchette e punzoni di chi è a pescar “broccioli”.
Scema la pendenza, al barbo succede il cavedano, e cala l’impeto, ma non la fame, esasperata dall’abitare una lingua di terra contesa, fame diversa eppur simile di parte guelfa e ghibellina. Zolle davvero contate per rispondere a troppe bocche, semine magre a darsi il cambio con piaghe e pestilenze. Resta invocar devoti il fiume e piegar le reni in guisa nuova. Son d’ausilio le decisioni prese altrove, e giungon come manna, prima di cingere il Capo d’Angiò. Il Creso gigliato, spavaldo e vanitoso si guarda allo specchio, si guarda le mani: d’altro sporco le vuol coperte, che non sia del “panno bigello”. Ha da pensare ad altro. Sublimi progetti, prodigi d’artisti, esuberanze d’oro dei Bardi che mutano in ricami dell’urbe: di creta bianca le guance, il lapislazzulo sulle ciglia, e ocre e porpore mosse da pennelli che adornano lo sguardo incantato a mirar due volte l’unto Re di Sion.
Raffinatezze di seta e raso da non lasciare altrui, e oltre le sue mura, verso ponente l’altro sudore, polmoni gonfiati di polvere e sporco di terra scavata. Rogge, gore e gualchiere, spuntan come dita dal palmo della mano che s’allunga a mezzogiorno, lavoro d’artigli ferrosi, unghie rotte e calli a graffiar la piana dalle Lodi del chiarore fino al Vespro della dodicesima. Ad ogni rivolo si danno i nomi: Pero, Gello, Palasaccio, Lupo, Castagno, fronte irrorata da sangue policromo di cuori e d’arterie a sembianza di vasche. Cattività d’acqua come pneuma vitale, primo solstizio della Calimala, che brinda solerte alle sue nozze di Cana. Trasmutazione dello scarto, umiliazione ascesa al sublime, orgoglio reso allo straccio dal dio palingenetico della rozzezza. Alacrità che plasma il rifiuto e lo rende in fiocco, subito in mano allo scardassiere, che sceglie e dispone per trama e ordito. Torsione e tensione femminile di muscoli e fili, il liccio che inventa combinazioni, l’allume di rocca nel bagno del tino, e in quello il panno si battezza e risorge.
Testarda e tenace Penelope, prona per duecento lustri a mostrar divenute virtù, stimate da altri ciarpame. Gioia e vanto nel gridare all’orbe l’arte saputa, intuizione materializzata, vessillo esibito e fluttuante ad ogni sospiro del tramontano. Gloria come pietra scolpita e scavata dalle piene e dal tempo, e oggi, ad alzar la testa, lo smarrimento opprime e sgomenta, tutto cambia e s’adegua anche il fiume. Corazze esotiche traversan le rive, il letto del fiume come veste cangiante, ora le rosse livree di carassi, ora riflessi verdi e zafferano dei persici sole. Eleganza d’aironi a far ombra tra l’acqua bassa, cacciando alborelle. Nuove genti, nuovi arrivi, nuove memorie lontane che s’ incrociano con le nostre ai bordi di questo fiume. Scorre ancora, come scorre la vita: e si è fatto tempo di nuove gualchiere.

1 commento:

  1. Dalla sorgente alla valle e poi infine c'è sempre la confluenza con l'Arno a Signa. Questo è il tracciato del fiume Bisenzio, ma è anche un po' il destino delle sue genti di sponda, sia che vi nascano sia che vi si trovino per necessità o caso. Questo e altro nelle parole di Riccardo, fine conoscitore della propria epoca e delle genti, nonchè ottimo esperto di pesca autoctona e di storia locale.
    Questo è un racconto a
    "discesa", così come fa il fiume quando è torrente, e a "rilento", così come succede quando il pianoro si stende e lascia spazio allo scorrere lento, quasi immobile delle acque.
    Il racconto lascia spesso spazio all'epica, all'etica, all'etnica e al pathos, con un incedere linguistico che mi ricorda tanto il Giovanni Lindo Ferretti di qualche anno fa.
    Si riflette anche in questo modo su cosa siamo stati, su cosa siamo e su cosa succederà in un prossimo futuro...

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